EUROPA
In Grecia, attorno al IV secolo a.C. si andò affermando l'Episkyros: due squadre dovevano portare la palla nella metà campo avversaria, colpendola indifferentemente con piedi e mani. Il gioco ebbe discreta fama, anche se non venne mai inserito nel programma dei giochi olimpici. I romani, successivamente, importarono questo gioco derivandone il nome dalla parola greca harpaston.
L'Harpastum dei romani era un esercizio intriso di violenza che veniva spesso utilizzato come strumento finalizzato a temprare i legionari, al termine di interminabili giornate di duro addestramento militare. Due squadre dovevano lottare brutalmente per impossessarsi della palla al fine di portarla nel campo avversario per segnare il punto.
I romani “esportarono” questa pratica nei territori conquistati: abbiamo notizie, nella Bretagna del VIII secolo, di un gioco con la palla, tramandato come “grande gioco”, disputato tra tutti gli abitanti di due villaggi confinanti, dove il campo da gioco era costituito dall'intero territorio; scopo del gioco era quello di colpire con la palla un bersaglio che, di solito, era disegnato su di un tronco posto al confine del villaggio.
Doveva trattarsi di un gioco importante e sentito e anche in questo caso, grazie alle dominazioni, il “grande gioco” sbarcò in Britannia, dove divenne Large-football e del quale abbiamo ricche testimonianze di grande seguito e partecipazione a partire dal 1200, con gare disputate soprattutto nel periodo del carnevale. Con l'aumentare della popolarità crebbe esponenzialmente anche la violenza del gioco, con gravi ripercussioni sull'ordine pubblico nei villaggi, tanto che, prima re Edoardo II ne proibì nel 1314 il gioco a Londra, poi nel 1388 re Enrico V lo mise definitivamente al bando sull'intero territorio del regno.
Agli inizi del XV secolo, a Firenze, soprattutto durante i giorni del carnevale, veniva giocato quello che è conosciuto come Calcio fiorentino: la partita iniziava con il pallaio che gettava in alto la palla; i giocatori – 27 per squadra, disposti in 4 file – davano vita ad una cruenta battaglia fatta di spintoni, pugni e calci, allo scopo di conquistare la palla e segnare la caccia (il punto). Tra le partite che si disputarono nel periodo, la più famosa è senz'altro quella che venne giocata nel 1530, quando i fiorentini noncuranti dell'assedio delle truppe inglesi di re Carlo V giocarono al calcio in piazza Santa Croce e che ancor oggi rivive attraverso le rievocazioni storiche che ogni anno si svolgono a Firenze.
Ovunque fosse praticato e qualunque fosse il suo nome, era ancora un gioco molto cruento e duro, ma nonostante i molti divieti la sua popolarità aumentava e continuò ad essere giocato un po' ovunque, tanto che nel 1600 venne tolto il bando in tutto il territorio inglese. A quel punto il gioco riprese ancora più slancio e riuscì a penetrare anche negli strati della popolazione più nobili, fino ad arrivare nei college e nelle università inglesi, dove venne rinominato dribbling-game, trasformandone le caratteristiche, dotandolo di regole e convenzioni che lo portarono ad essere qualcosa di molto diverso dal gioco cruento che era sempre stato. Con il XIX secolo, i college inglesi ebbero il controllo totale del dribbling-game, quindi modellato completamente a gioco per gentiluomini. Siamo ormai al gioco del football come oggi lo conosciamo: l'ultimo strappo è quello celebre di William Webb Ellis, studente della Rugby School, che nel 1823 giocando ad un incontro di football prese la palla con le mani e corse sino alla linea di fondo campo avversaria. Con la seconda metà del XIX il football diventerà il gioco che ancor oggi si gioca in tutto il mondo.
Er giucator de pallone (Giuseppe Gioachino Belli)
Ar Bervedé cc’è ppoco. Er Papa vola
che ppe vvolate manco Ggentiloni!
Ma in partita è ttareffe, e ffa cciriola,
ché li falli sò assai piú de li bboni.
Che sserve che nnoi poveri cojjoni
je seggnamo le cacce? A cquella scòla
de mannà ssempre a sguincio li palloni,
si ll’impatti è pper dio grasso che ccola.
Ggiuchi a ppassa-e-rripassa, o ccor cordino,
dà llui solo l’inviti e le risposte,
e vvò stà ssempre lui sur trappolino.
Cuann’è all’onore poi, fa ccerte poste
scerte finte, c’a èss’io Tuzzoloncino
je darebbe er bracciale in de le coste.
Ne le partite toste
o nne le mossce s’ingeggna, er bon prete
cor vadi e vvienghi, e cquale la volete.
Tira sempre a la rete
cuann’è in battuta, e nnun fa mmai un arzo
o rribbatti de primo o dde risbarzo.
Ar chiamà cchiama farzo;
e ssi er quinisci penne da la tua,
procura de tornà ssempre a le dua.
Ha una regola sua
oggni tanto de dà ffora una messa
pe ffàtte ariddoppià la tu’ scommessa;
e cco sta jjoja fessa,
qualunque cosa er cacciarolo canti,
sce gonfia li palloni a ttutti-cuanti.
Roma, 31 gennaio 1833
MESOAMERICA
“Vukub Hunahpu e Hun Hunahpu [invevce] erano abili giocatori di tlachtli,
il gioco della palla, e pur se erano in due sapevano giocare come un'intera squadra,
che era formata da quattro giocatori"
Per una qualificata parte degli studiosi, i Maya nel concepire e disegnare i tracciati urbani e nell'architettura dei monumenti trasponevano la loro visione del mondo e del mito della creazione. Pertanto il grande sferisterio a Chichen Itzà rappresenterebbe la celebrazione del mito dei Divini Gemelli, Hunahpu e Ixbalanque, i quali, eccellenti giocatori di Tlachtli, sconfissero gli inferi al tempo della Terza Creazione. Questo tramanda il Popol Vuh, fondamentale testo di mitologia Maya. Il Tlachtli altro non era se non il gioco della palla, gioco che si disputava nelle diverse città-stato Maya con modalità e finalità spesso diverse.
Il gioco della palla, nella città di Chichen Itzà, consisteva nel far entrare una palla di gomma in un anello di pietra posto perpendicolare al suolo nel mezzo delle pareti ai lati lunghi del campo.
Gli indovini e i sacerdoti tiravano a sorte chi doveva iniziare a giocare; la palla poteva essere colpita con piedi, fianchi e avambracci per un massimo di 4 tocchi, con un solo rimbalzo a terra concesso.
ASIA
Le prime testimonianze del Tsu-Chu in Cina risalgono attorno al 2.700 a.C., e pur essendo il più risalente nel tempo è l'antenato più simile al moderno gioco del calcio. Il gioco all'origine aveva una forte valenza simbolica, poi, con il passare del tempo, divenne attività di addestramento per i soldati per arrivare infine ad essere un semplice divertimento per i nobili. Il Tsu-Chu si giocava tra due squadre composte ciascuna da 12 giocatori in un campo rettangolare delimitato da 4 mura; sui due lati corti erano disegnate 6 porte ad arco. L'inizio dell'incontro veniva dato dal capo-arbitro, il quale spingeva la palla verso una delle due squadre; il punto veniva segnato quando la palla – di cuoio – veniva calciata all'interno di una delle 6 porte. Pertanto, come nel moderno football e a differenza di tutti gli altri giochi con la palla praticati in Europa, non si poteva toccare il pallone con le mani, ma si dovevano utilizzare esclusivamente i piedi. Altre fonti riportano una diversa variante del gioco che aveva come scopo quello di far entrate la palla in uno stretta porta sospesa su due canne di bambù e posta a circa 30 metri di altezza. Il Tsu-Chu, come detto, aveva uno spiccato tratto simbolico, con chiari riferimenti alle fasi solari: la palla, sferica, rappresentava la sfericità del sole; i 4 lati del campo le 4 stagioni; le 6 porte e i 24 giocatori simboleggiavano il calendario solare cinese.
La pratica del Kemari venne introdotta in Giappone probabilmente dalla Cina attorno al 600 d.C., cioè dopo che il Tsu-Chu andò progressivamente perdendo il suo carattere militare, ed ebbe il periodo di maggior diffusione attorno al X-XII secolo. Il Kemari veniva praticato da 8 giocatori che, posti in cerchio, si passavano la palla senza farla mai cadere al suolo colpendola esclusivamente con i piedi; erano consentiti al massimo tre palleggi prima di passare la palla al compagno e il gioco veniva iniziato dal giocatore di rango più alto.